Inquiring Mind: Robert, lei ha lavorato sulle emozioni per tutta la sua vita professionale e, presumiamo, anche personale. Ritiene che noi come cultura, in Occidente, siamo bravi a gestire le emozioni?

 

Robert Hall: Non credo. Come terapista, bodyworker e insegnante di meditazione ho ripetutamente constatato che le persone che si rivolgono a me sono in uno stato di sconvolgimento emotivo, ma non capiscono quali emozioni siano in gioco e come esse si relazionino alle loro storie individuali. Spesso, vi è un senso di energia in movimento, di caos che viene sperimentato nel corpo, ma nella maggior parte dei casi l’emozione non viene identificata. Il grande successo del lavoro di Daniel Goleman sull’intelligenza emotiva è molto importante, perché la maggioranza delle persone non hanno idea di quello che veramente sentono. Quando ho iniziato a lavorare come psicoterapista, era una delle cose più strane che incontravo.

 

IM: La pratica della meditazione aiuta le persone a mettersi in contatto con quello che sentono?

 

RH: Sì, specialmente grazie all’enfasi del Vipassana nel prestare attenzione alle sensazioni del corpo. Aiuta le persone a connettersi con le proprie emozioni. Tuttavia, nei primi anni della pratica della meditazione in Occidente, gli insegnanti di meditazione non avevano molto esperienza nel gestire le emozioni nelle loro stesse vite, figuriamoci in quelle degli studenti. Così per parecchio tempo c’è stata una notevole confusione circa il come lavorare con le emozioni.

 

IM: Cosa potrebbe succedere in un ritiro se uno studente scoppiasse a piangere a dirotto, o si mostrasse emozionalmente turbato? Come gestirebbero la cosa gli insegnanti?

 

RH: Be’, nei primi anni magari non avrebbero tentato di sopprimere l’emozione, ma in linea generale non l’avrebbero considerata una cosa da affrontare, o di cui parlare. Diciamo che veniva permessa e al tempo stesso ignorata. L’approccio era quello che diceva: “E’ solo la tua personalità. Lasciala andare e torna al respiro”. Il vero lavoro era tornare al respiro. L’enfasi veniva messa sulla pratica della concentrazione.

 

IM: Nelle varie pratiche psicologiche veniva data maggiore attenzione alle emozioni?

 

RH: In realtà, no. La faccenda veniva liquidata allo stesso modo nell’intera comunità del corpo-mente. Quando lavoravo con Ida Rolf, ebbi un sconvolgimento cataclismico risperimentando un antico trauma, ma lei essenzialmente ignorò il mio turbamento e si rifiutò di parlarne. Negli anni Settanta, l’atteggiamento in vigore in molte comunità di guarigione era questo. Un’eccezione fu Fritz Perls, il quale praticamente inventò la scuola di psicologia nota come Gestalt, che è stato un maestro molto importante per me.  Ritengo che il suo contributo alla psicologia sia stato di aver reso possibile che le persone sentano e diano un nome alle proprie emozioni. Ha sviluppato delle tecniche, come ad esempio la conversazione con la sedia vuota, dove sei costretto a esplorare le tue proiezioni sugli altri.

 

NOTA: Ida Rolf, fondatrice del Rolfing bodywork, insegnò inizialmente il suo sistema a due medici. Robert era uno di questi.

 

IM: Quando ha cominciato a insegnare meditazione Vipassana, lei ha abbandonato le tecniche della Gestalt, oppure ha cercato di integrare alcune parti di quell’approccio nel suo lavoro con gli studenti di meditazione?

 

RH: Non sono mai riuscito a integrare completamente il lavoro della Gestalt in un ritiro perché essenzialmente i ritiri sono silenziosi. Tuttavia, nel mio lavoro con piccoli gruppi e nella pratica privata con individui, combino la meditazione con la Gestalt. Ho constatato che la capacità di prestare attenzione è molto utile nella Gestalt. Di recente, in Messico, ho iniziato a fare dei ritiri nei quali integro pienamente entrambe le pratiche. Le giornate si svolgono in silenzio, ma la sera, invece di discorsi di Dharma, faccio sedute di Gestalt. Le persone vedono la potenza delle emozioni, imparano a identificarle e capiscono come incarnarle ed esplorarle.

 

IM: Potrebbe darci un esempio di una delle sue sedute di Gestalt?

 

RH: Mi siedo nella sedia aperta, il classico formato della Gestalt, e invito le persone a farsi avanti una alla volta e iniziare una conversazione con me. Faccio uso di quello che ho imparato della Gestalt nel corso degli anni per portare in primo piano alcune emozioni profonde sulle quali si lavora durante il processo. E coloro che osservano il processo lo vivono per interposta persona. Ecco una situazione tipica: chiamo la sedia aperta e una giovane donna si fa avanti. Dimostra ventisette, ventotto anni e inizia a parlarmi della sua vita. Devo dire che col tempo ho acquisito l’abilità di annusare le emozioni represse. Sento quando sono presenti e so esattamente quale emozione viene repressa. Quando questa giovane donna inizia a lamentarsi della sua vita, sento che sta trattenendo un sacco di rabbia. Poi a un certo punto menziona la sua casa natale, comincia a parlare di sua madre e nel suo tono di voce io sento molta rabbia verso la madre. Allora le chiedo di portare sua madre sulla sedia vuota e la incoraggio ad avere una conversazione con lei. A quel punto, tutte le sue proiezioni sulla madre vengono in primo piano nel contesto della conversazione. La faccio parlare con sua madre e poi le chiedo di cambiare sedia e diventare la madre che risponde. Se il lavoro ha davvero successo, a un certo punto lei realizza che l’intero conflitto ha luogo nella sua mente. Capisce che sta parlando a se stessa, non a sua madre. Quando questo avviene, si verificano dei meravigliosi risvegli. Fritz definiva questi risvegli “mini-satori”.

 

IM: Nel Satipattana Sutra. le istruzioni del Buddha per gestire le emozioni o gli stati della mente (chitta) sono di diventare semplicemente consapevoli di esse. “Sapere che una mente lussuriosa è lussuriosa”, dice, o che “una mente arrabbiata è arrabbiata”. Non ci sono moralizzazioni, o consigli per  rimediare. Tutto quello che viene raccomandato è una semplice consapevolezza diretta.

 

RH: Questo è davvero molto bello. Però io penso che il mio lavoro richieda qualcosa di più della semplice consapevolezza, principalmente perché le persone non sanno identificare le emozioni. Non è facile riconoscere una “mente arrabbiata” quando si viene travolti dall’emozione. Così, io assisto le persone aiutandole a sentire l’emozione nel corpo, a livello delle sensazioni. In questo modo, cominciano a capire cosa vuole dire essere arrabbiati. A un certo punto potrei dire: “Ripeta con me, questa è rabbia. Questa è rabbia.” In questo modo viene fatta la connessione. Chiedo alle persone di sentire profondamente l’energia del corpo a livello delle sensazioni. A quel punto, loro iniziano a conoscere davvero la rabbia, a capire come ci si sente. Nel setting di un ritiro, questa comprensione è molto potente, perché com’è ovvio la concentrazione e il silenzio praticati durante il giorno hanno creato il contesto per questo tipo di esplorazione.

 

IM: Ci descriva come sosterrebbe questa giovane donna per farla tornare al processo della meditazione.

 

RH: Dopo un lavoro così profondo, che può essere spesso drammatico, mi prendo del tempo, spiegando alla studente che ora l’emozione sta entrando nella consapevolezza cosciente e di come la consapevolezza stessa sia la guarigione. La luce della consapevolezza comincia a dissolvere la contrazione nel corpo dove l’emozione veniva trattenuta. Tuttavia, è necessario procedere con cautela, perché può avvenire troppo in fretta e diventare insostenibile. Il passaggio deve essere accompagnato da un processo educativo.

 

IM: Ha notato se, nel corso degli anni, gli insegnanti di meditazione sono diventati più sofisticati nell’affrontare i problemi psicologici?

 

RH: Senza dubbio. Penso che Jack Kornfield abbia assunto la leadership nell’aiutare a superare il divario tra meditazione e psicologia. A Spirit Rock siamo molto interessati anche al lavoro di Peter Levine sul Somatic Experiencing, che io ritengo abbia un grande valore. In generale, nella comunità delle meditazione, le emozioni non sono più viste come ostacoli al risveglio, bensì come fenomeni da indagare all’interno del processo di risveglio.

 

IM: Pensa che sia importante per le persone esplorare un’emozione nel contesto della loro storia individuale?

 

RH: Sì, all’inizio potrei perfino incoraggiare le persone a esplorare il modo in cui sono giunte a provare queste particolari sensazioni. Le aiuterei a esplorare le emozioni e questa è sempre un’esperienza corporea, che richiede di prestare attenzione alle sensazioni. A un certo punto, il corpo inizia a perdere forma e non stiamo più lavorando sulle emozioni. Il corpo diviene un campo, un campo di energia, e ci connettiamo con la natura universale dell’esperienza. Siamo usciti dal lavoro della psicologia e siamo entrati nel reame dello spirito.

 

IM: Nel suo lavoro con la Gestalt, Fritz Perls guidava la gente a fare questo balzo dal personale all’universale?

 

RH: Lo stesso Fritz compiva spesso quel passaggio. Era sempre in cerca del punto in cui i due lati dell’ego, le polarità, giungevano a un punto morto. Lui chiamava quel luogo “l’impasse”. A quel punto, poteva verificarsi una sorta di trascendenza, un risveglio oltre la dualità. L’hi visto accadere molte volte. Ma, dopo che lui era uscito di scena, è sembrato che i suoi seguaci e imitatori  non avessero il suo stesso talento, o sofisticazione. La Gestalt  è stata relegata a una pratica dove si prende a pugni un cuscino per sfogare la rabbia. L’aspetto trascendente è andato perso. Grazie alla mia esperienza nello studio del Vipassana, sento di aver conservato un po’ di quel talento, o almeno un senso dello scopo superiore del lavoro.

 

IM: Cosa intende dire quando parla dei due poli dell’ego che arrivano a un impasse?

 

RH: Essenzialmente, la nostra coscienza è divisa: vediamo il mondo attraverso la lente degli opposti. Fritz vedeva questa spaccatura in ciascuno di noi, nella struttura dell’ego. Chiamava queste due polarità il “cane dominante” e il “cane sottomesso”. C’è sempre qualcuno che domina e qualcuno che rimane passivo, e sono in costante conflitto tra di loro. Le emozioni emergono da questi conflitti. La Gestalt è un modo per isolare i conflitti all’interno dell’ego e poi lavorare verso un’integrazione dei due lati. E’ davvero brillante.

 

Di solito, la voce dominante è genitoriale. L’altra, invece, è più infantile e sta dicendo: “Ehi, lasciami in pace. Sto facendo il meglio che posso. Non starmi addosso”.

 

Un esempio di dialogo interiore potrebbe essere una voce che dice: “Senti, tu sei troppo debole. Devi alzare la testa e prendere posizione. Devi farti conoscere”” Al che l’altra voce ribatte: “Sì, lo so, ma quando lo faccio la gente si infastidisce. E io non voglio che la gente mi trovi antipatico. Mi fa paura, sentirti parlare così”. Queste sono due lati di una stessa persona. Ovviamente, è una semplificazione.

 

IM: Certo, sì.

 

RH: Un altro dialogo potrebbe includere una voce che dice: “Mi sento continuamente male. Credo che in me ci sia qualcosa che non va. Mi ammalo spesso. Faccio fatica ad alzarmi dal letto la mattina””.  E l’altra voce risponde: “Sì, be’, se mangiassi meglio, ti sentiresti meglio. Se facessi un po’ di ginnastica, ancora di più. Perché non inizi a prenderti cura di te stesso?”.

 

O una voce potrebbe dire: “Sono così solo. Non ho mai avuto un partner. Ho bisogno di una relazione intima.” E l’altra voce di rimando: “Sì, be’, pensa all’ultima volta che hai avuto una relazione intima. Ricordi com’è andata finire?”.

 

Questo genere di conversazioni si svolgono all’interno di molte persone. Il dialogo tra le due voci va avanti quasi ininterrottamente, spesso sotto la soglia della coscienza. A volte il conflitto viene sentito come una contrazione, o un fastidio nel corpo, un’irrequietudine, o un dolore. Il dialogo interiore si riflette nel corpo con delle sensazioni sgradevoli.

 

Nel lavoro della Gestalt, cerco di portare questo dialogo nella consapevolezza, mettendo le due parti in conversazione tra di esse. In questo modo esploriamo la struttura dell’ego. Quando investighiamo questi dialoghi in pubblico, le persone presenti sono profondamente turbate. Nei ritiri di meditazione, questi conflitti interiori vengono osservati in silenzio. A volte, vedendoli messi in scena davanti ai nostri occhi, si accende la luce.  “Oh, ho capito. E’ questo che succede nella mia mente”. La gente inizia a capire che il dramma è impersonale, oltre che impermanente. Le emozioni che emergono dai conflitti non hanno più  un impatto e un controllo così forti. Le persone possono gustare il sapore della libertà.